sabato 19 gennaio 2008
Lettera di Manuela Salvi di Formia al filosofo e psicanalista Umberto Galimberti, su "D Repubblica della donne".
Formia: Come si affronta la morte quotidiana della natura, del silenzio, del mare? Mi ricordo la sensazione di distacco fisico che provavo quando, per studiare e per fare esperienze all'estero, dovevo separarmi dal mare. Solo chi nasce e cresce sulla costa sa quanto quella nostalgia sia illogica e incontrollabile, ti insegue ovunque, ti prende alla gola quando meno te lo aspetti, mentre sei in un bar o per strada, mentre lavori.
Mi ricordo della mia lucida decisione di tornare a casa, di rinunciare ai divertimenti della grande città e alle possibilità di lavoro, per svegliarmi la mattina e avere l'azzurro davanti, coi suoi riflessi di sole e le sue tempeste, i suoi tramonti. Non avevo trovato niente, proprio niente, che fosse più desiderabile. Adesso, dopo alcuni anni, sono costretta a guardarlo come si guarda un amante in fin di vita. Agonizza e sospira ogni anno di più. Non sorride di riflessi come faceva una volta, coi pescetti a mezzo metro da riva, verde e trasparente. È opaco e sofferente, ferito. Larghe strisce di una schiuma bianca e marrone, che tutti sembrano voler giustificare come il prezzo per il progresso "naturale" della società, circondano la costa rocciosa, senza tregua. Ci si deve rassegnare? Ho scritto lettere al ministero, alla Regione, alla Provincia. Quando la spiaggia, in questi mesi, è stata invasa da una marea di affarini di plastica neri portati da una mareggiata (anomalia di non so quale stabilimento industriale o depuratore, hanno detto...) ho spedito un chilo di sabbia e affarini a Pecoraro Scanio. L'anno scorso ho fatto dei volantini che ho distribuito da sola sulle spiagge, con le fotocopie di articoli ambientalisti che definivano il nostro mare a rischio. Ma mi sembra veramente di tentare, da sola, la chemio su un paziente di cui nessuno si cura, sapendo che comunque, per quanto io possa lottare, prima o poi si spegnerà. È un dolore insopportabile.
Manuela Salvi, Formia rovingcactus@libero.it
Risponde Umberto Galiberti:
Che ne dice se consideriamo il mare come simbolo dell'inquietante e dell'instabile, anche quando, ingannevole, appare nella sua calma trasognata? Se così è, esso intimorisce gli uomini della stabilità che abitano la terra, che, al ritorno della stessa onda sulla stessa riva, vera scansione del tempo, preferiscono il loro agitarsi e rincorrere effimeri progetti. Profonde lontananze di luce dischiudono orizzonti al di là dell'orizzonte, e perciò il mare si fa simbolo del senza-confine che impaurisce chi abita terre protette, intimi focolari, passioni quiete che nessuna gioia ha mai fatto danzare, alcun dolore inabissato. Il mare conosce la danza e l'abisso, ma chi sono coloro che hanno abbastanza cuore per questo? I signori della terra? Gli uomini di carattere? No, la superficie del mare è troppo pura per i loro occhi, e loro sono troppo sgraziati e avidi di territorio per prendere il largo con la semplicità del navigante che incoraggia il suo cuore. Le linee del mare sono infatti la profondità dell'abisso e il senza-confine dell'orizzonte, due dimensioni che inquietano gli uomini della terra, incapaci di vivere senza i segni del mondo, mentre il mare anela a cose più lontane, più abissali, più indistinte nei loro indiscernibili confini e, come la distesa delle acque vuole sè stessa, come l'onda vuole il ritorno, come il vento vuole tempesta, così l'abisso del mare vuole profondità. Nel mare, infatti, c'è quella voglia di terre non ancora scoperte che solo la distesa delle acque può concedere a chi non teme il senza-confine dischiuso da quegli spazi senza meta dove neppure il tempo conosce altra segnalazione se non quella offerta dalla luce e dal buio. Nel mare il senso del mondo si capovolge e l'incalcolabile, che sulla terra incute timore, diventa atmosfera del cuore costretto a non fidarsi né della calma trasognata dell'acqua né del suo burrascoso inabissarsi ed elevarsi, quando la costa è scomparsa e lo spazio e il tempo appaiono nel loro assoluto. Qui e solo qui, non dietro "la siepe dell'ermo colle", appare quanto è spaventoso l'infinito, e con l'infinito quanto è spaventosa la libertà sognata prima che l'ultima catena ci sciogliesse dalla terra, ora che non esiste più terra alcuna, ma solo il più assetato degli elementi, il più affamato, il più pauroso, il più misterioso, il mare. "Se in me - scrive Nietzsche - è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel piacere è un piacere di navigante, se mai gridai giubilante: 'la costa scomparve' - ecco anche la mia ultima catena è caduta - il senza-fine mucchia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! Coraggio! Vecchio cuore!". Allontanandolo dal proprio cuore, perché metafora dell'instabile e dell'inquietante, gli uomini della stabilità, gli occidentali, hanno fatto del mare la pozzanghera della terra ove scaricare i propri rifiuti e, quando si sono spinti più in là, era solo per dividere le onde in acque territoriali, onde delimitare anche sull'instabile le loro proprietà, cioè i segni delle loro divisioni, l'odio cieco dei loro cuori esangui, e per questo cattivi. E così il mare ha smesso di offrire terre sconosciute al navigante che incoraggiava il suo cuore, perché il compito che gli uomini gli hanno assegnato è quello di delimitare terre nemiche. Ulisse non avrebbe mai sospettato che la forza del mare "immensa nei suoi flutti" potesse essere superata dalla violenza dei cuori invincibili negli odi.
1 commento:
un'altra "affinità elettiva" in comune...
leggo Galimberti da anni e anni sempre con attenzione...
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